POST 464

Decidendo la vertenza dello sfruttamento commerciale del marchio “Dolce e Gabbana” (sentenza n. 33234 del 21/12/2018), la Corte di Cassazione, sezione tributaria, ha stabilito che la dislocazione all’estero di una sede secondaria di una società amministrata dall’Italia, onde beneficiare di un trattamento fiscale più vantaggioso di quello nazionale, costituisce una pratica abusiva soltanto se tale risultato abbia costituito lo “scopo essenziale” dell’operazione. “Non è difatti sufficiente applicare criteri generali predeterminati”, facendo leva sulla “mancanza di autonomia gestionale e finanziaria” della società, come erroneamente deciso dai giudici milanesi, ma “occorre passare in rassegna la singola operazione” accertando se da “un insieme di elementi oggettivi” risulti (appunto) che lo “scopo essenziale” della costruzione sia quello dell’ottenimento di un beneficio fiscale. Ciò perché -in base alla giurisprudenza comunitaria riportata in sentenza- “quando il contribuente può scegliere tra due operazioni, non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale”.

Con riguardo al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società -afferma la sentenza-, si è sottolineato (Corte giust. 12 settembre 2006, in causa C196/04) che, tema di libertà di stabilimento, la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di talelibertà; una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa soltanto se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato”.

L’obiettivo della libertà di stabilimento è di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le proprie attività e partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio di origine e di trarne vantaggio”.

La nozione di stabilimento, implica, quindi, l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminato, mercè l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro: presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale”.

Ne consegue che, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale”.

In definitiva, quel che rileva, ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, non è accertare la sussistenza o meno di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma accertare se il trasferimento in realtà vi è stato o meno, se, cioè, l’operazione sia meramente artificiosa (wholly artificial arrangement), consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica”.

Ciò non si verifica se, nel caso esaminato, “qualcosa in Lussemburgo effettivamente si faceva”, come era emerso dalla corrispondenza e-mail con le due dipendenti della GADO e indipendentemente dal fatto che le stesse agissero in base a direttive provenienti da Milano. Come stabilito anche dai giudici penali che si sono occupati della medesima vicenda (Corte di Cassazione, sentenza 24 ottobre 2014/30 ottobre 2014), “in caso di società con sede legale estera controllata ai sensi dell’art. 2359 c.c., comma 1, di diritto, non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede effettiva l’individuazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative qualora esso s’identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana, precisando che in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia costruzione di puro artificio, ma corrisponda a un’entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto”.

Può dunque enunciarsi il seguente principio di diritto, richiamato in sentenza: “le società esterovestite non sono, per ciò soltanto, prive della loro autonomia giuridico-patrimoniale e, quindi, automaticamente qualificabili come schermi, ossia come assetti creati esclusivamente per farvi confluire i profitti degli illeciti fiscali”.

Avv. Claudio Tiberti