POST 72

La Corte di
Cassazione con la sentenza n. 1335 depositata in data 26 gennaio 2016 si è
pronunciata in merito all’annosa questione della tassazione in capo ai soci in
conseguenza della rinuncia da parte di questi del credito vantato nei confronti
della società. Tale pronuncia ricalca quanto sostenuto dall’Amministrazione
finanziaria con la C.M. 27 maggio 1994 n. 73 nella quale “la rinuncia ai
crediti correlati a redditi che vanno acquisiti a tassazione per cassa (quali,
ad esempio, i compensi spettanti agli amministratori, dividendi e gli interessi
relativi a finanziamenti dei soci) presuppone l’avvenuto incasso del credito (cd. incasso
giuridico)
e quindi l’obbligo di sottoporre a tassazione il loro ammontare”.

Nel caso di specie la Corte ha considerato come
tassabile (in capo al socio) la rinuncia ad un credito relativo al trattamento
di fine mandato da parte dei soci amministratori.

La Cassazione
ha infatti contestato, richiamando i principi espressi anche dalla recente sentenza
n. 26842 del 18/12/2014 della stessa Corte, l’orientamento espresso nelle precedenti pronunce dai
giudici di merito i quali avevano ritenuto non imponibile detta rinuncia in
virtù delle disposizioni contenute nell’articolo 55 del TUIR il quale non
considera tassabili le rinunce ai crediti da parte dei soci.

Tale lettura
è stata valutata come erronea da parte della Cassazione che ha dunque
evidenziato come la non imponibilità faccia riferimento esclusivamente alla società
per la quale la rinuncia del credito non costituisce sopravvenienza attiva
tassabile (non transita per conto economico ma si traduce in un movimento verso
il patrimonio netto) mentre non vale ad alterare il regime fiscale – in capo
ai soci – di ciò che costituisce oggetto di rinuncia.

Secondo gli “Ermellini” infatti la norma agevolativa va
letta in correlazione con l’art. 94 comma 6 e l’art. 101, comma 7 del TUIR, per
effetto dei quali l’ammontare relativo al credito oggetto di rinuncia si
aggiunge al costo fiscalmente riconosciuto della partecipazione detenuta nella
Società debitrice e non è ammesso in deduzione in capo al socio. Ciò che ha
portato a chiarire, nella prassi, che “l’intassabilità
della rinuncia ai crediti da parte dei soci si giustifica, in via sistematica,
in virtù della cointeressenza del socio-creditore, alle vicende della società
partecipata. La patrimonializzazione di quest’ultima si riflette, infatti,
nell’attivo della partecipante attraverso un corrispondente aumento del costo
della partecipazione
” (così risoluzione dell’Agenzia delle Entrate
152/2002 che richiama le precisazioni già contenute nella precedente
risoluzione del 5.4.2001 n. 41/E).

La rinuncia al credito da parte del socio costituisce,
quindi, una prestazione che viene ad aumentare il patrimonio della società e
può comportare anche l’aumento del valore delle sue quote sociali.

In tale contesto la Corte ha dunque ritenuto corretto
sostenere che la rinuncia del credito da parte di un socio sia espressione
della volontà di patrimonializzare la società e che, pertanto, non possa essere
equiparata alla remissione di un debito da parte di un soggetto estraneo alla
compagine sociale.

In altri
termini, la rinuncia presuppone, il conseguimento del credito il cui importo,
anche se non materialmente incassato, viene comunque “utilizzato”,
sia pure con atto di disposizione avente natura di rinuncia.

Da ciò ne consegue quindi che, in caso di compensi di
lavoro autonomo spettanti al socio, la rinuncia operata dal socio medesimo
presuppone logicamente la maturazione ed il conseguimento del credito vantato,
con ineludibile soggezione al regime fiscale conseguente, in capo al socio creditore.

Alberto
Simonetti
Dottore Commercialista – Studio EPICA – Treviso