POST 21

Con il deposito della senza numero 43809/15 avvenuto lo scorso 30 ottobre 2015 la Terza sessione Penale della Cassazione ha reso note le motivazioni dell’assoluzione pronunciata, ormai un anno fa, in favore degli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana in relazione alla accusa di evasione fiscale.

Tra i vari punti toccati dalla sentenza ve ne è uno in particolare che non mancherà di far discutere ovvero quello legato al concetto di esterovestizione societaria.

Nel caso in esame infatti “gli Ermellini” hanno ravvisato non esservi la sussistenza di alcun reato in quanto la società lussemburghese detenuta indirettamente dai due noti stilisti non poteva essere ritenuta esterovestita e quindi residente in Italia.

La Suprema Corte infatti ha contestato il fatto che le due corti prima espressesi sul caso abbiamo voluto ricondurre la società estera come residente in Italia facendo esclusivo riferimento alprincipio espresso dall’art 4 del modello OCSE per il quale la residenza di una società coincide con il place of effective management richiamato nel nostro ordinamento tributario dal dettato dell’articolo 59 del TUIR secondo cui il domicilio fiscale “si identifica nel centro effettivo di direzione e svolgimento della sua attività, ove cioè risiedono gli amministratori, sia convocata e riunita l’assemblea sociale, si trovino coloro i quali hanno il potere di rappresentare la società, il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accertamento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente e nel quale, dunque, hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti”.

Viene dunque fatto notare come tale conclusione si ponga in netto contrasto, nel caso di specie, con le previsioni di cui agli artt. 2359 e 2497 del codice civile dove il rapporto tra controllante e controllata prevede esplicitamente una influenza della prima sulla seconda.

Secondo la Corte infatti “identificare tout court la sede amministrativa della società controllata con il luogo nel quale si assumono le decisioni strategiche o dal quale partono gli impulsi decisionali può in questi casi comportare conseguenze aberranti ove esso dovesse identificarsi con la sede della società controllante, in evidente contrasto con le ragioni stesse della politica del gruppo e le esigenze sottese al suo controllo”. Viene inoltre sottolineato come il concetto di controllo espresso dall’art.2359 cc sia utilizzato più volte dal legislatore fiscale come per esempio in relazione alla normativa sul consolidato fiscale nazionale e mondiale (nel caso in cui le società controllate siano italiane ovvero residenti all’estero).

A sostegno della propria tesi la Corte fa inoltre uno specifico rimando anche alla disciplina sulle CFC (controlled foreign companies) secondo la quale non può applicarsi imposizione in Italia in capo al soggetto controllante se la controllata estera svolge effettivamente attività di tipo commerciale o industriale nel paese estero, anche qualora tale paese presenti una imposizione fiscale più vantaggiosa.

Punto fondamentale diventa dunque quello di verificare il reale svolgimento dell’attività in Lussemburgo. Tale assunto viene in seguito rafforzato, lungo il percorso argomentativo e particolarmente articolato della Suprema Corte, attraverso il rimando alla copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea in tema di libertà di trasferimento ovvero la possibilità di instaurarsi in uno stato UE a maggior vantaggio fiscale purché vi sia un reale insediamento legato all’effettivo svolgimento di una attività che quindi non configuri una costruzione di puro artificio.

Secondo tale approccio quindi non si può limitare la libertà di stabilimento in quanto vi è un risparmio fiscale ma ci si deve limitare a verificare che vi sia una effettiva attività economica evitando la costituzione di strutture di puro artificio volte solo ad un risparmio fiscale. È evidente come il rimando alle costruzioni di puro artificio ponga in linea la giurisprudenza della Corte Europea con quanto previsto dall’art 167 comma 8bis del TUIR in tema di CFC.

In buona sostanza secondo la Corte se non c’è costruzione artificiosa non c’è abuso.

Per poter quindi accertare la natura artificiosa o meno della società estera la Corte rimanda ai criteri indicati dall’art. 162 del TUIR per definire la “stabile organizzazione” e a quelli elaborati dalla giurisprudenza comunitaria per identificare le società cd. “casella postale” o ”schermo”.

Nel caso di specie i giudici hanno ritenuto sufficiente a vincere la presunzione di struttura meramente artificiosa la presenza in Lussemburgo di un ufficio, ovvero una delle fattispecie espressamente previste dall’articolo 5 del modello OCSE contro le doppie imposizioni, dove “effettivamente qualcosa si faceva”.

Si tratta in ogni caso, puntualizza infine la Corte, di accertamenti che appartengono alla ricostruzione del fatto reato e che, in quanto tali, devono essere condotti dal giudice in modo autonomo, secondo le regole del giudizio proprie del processo penale che non tollerano inammissibili inversioni della prova frutto del ricorso alle presunzioni fiscali.

Alberto Simonetti
Dottore Commercialista – Studio EPICA – Treviso